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Intervista a Timberland: Rivoluzione, Innovazione e Qualità di prodotto

 

Anche Timberland, nota azienda statunitense appartenente al gruppo VF corporation, sostiene che integrare nel proprio business una strategia di sostenibilità è ormai diventata una necessità.

Timberland è una delle grandi imprese nel settore dell’abbigliamento outdoor che si distingue per fare della sostenibilità la propria filosofia, dando esempio a molte aziende.

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Elisabetta Baronio, CSR Manager per la Regione EMEA, ovvero Europa, Medio Oriente e Africa.

Se vuoi ascoltare l’intervista, clicca qui:

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Serena: Ciao Elisabetta, è un piacere averti tra noi! Cosa significa sostenibilità per Timberland e quali sono i valori che porta avanti il brand?

Elisabetta: Ciao Serena! Come brand, sono circa 30 anni che siamo impegnati in quello che è il tema della responsabilità sociale d’impresa. Pian piano, questa tematica si è evoluta e ha preso una forma, una strategia ben definita, una strategia che, ad oggi, non è soltanto più solo una strategia di sostenibilità ma è proprio la strategia del brand.

La nostra filosofia si basa principalmente su tre pilastri: il primo lo definiamo better product, ovvero prodotti creati per essere più sostenibili proprio perché siamo un’azienda che fa calzature e abbigliamento, di conseguenza questa è la nostra tematica più materiale e più importante da affrontare. Vi sono, poi, altre due tematiche che sono per noi essenziali: la prima è l’idea di un green future. Il nostro è un brand che è nato nell’outdoor ed è per questo che abbiamo un commitment di piantare 50 milioni di alberi entro il 2025.

Infine, l’ultimo pillar è relativo alle community e alle comunità in cui viviamo e lavoriamo con l’idea di stronger communities: vogliamo creare un legame e un contatto con la comunità che ci circonda perché siamo convinti che solo in questo modo si possa creare una società migliore. Per questa ragione, ogni nostro dipendente ha 40 ore di volontariato all’anno che può spendere per supportare le cause che gli sono più vicine.

 

S: Vorrei soffermarmi sulla prima frase che hai detto, ovvero che la strategia di sostenibilità è diventata la strategia del brand, di Timberland. La sostenibilità viene vista, quindi, come parte integrante dell’azienda, non più solo come una parte del piano aziendale?

 

E: Assolutamente. Su questo vi posso anche fare un esempio: lo scorso settembre noi abbiamo lanciato quella che è la product innovation vision per il 2030, che illustra come noi pensiamo che i nostri prodotti dovranno essere nel futuro. Specificatamente, la vision dice che entro il 2030 creeremo prodotti che hanno un impatto positivo sull’ambiente. Quindi vedete come le due cose, in realtà, vanno di pari passo: la strategia di sostenibilità non è più soltanto una strategia a parte ma diventa il modo in cui noi andiamo a costruire il nostro prodotto e, poi, a metterlo sul mercato.

 

S: Sono d’accordo. Quando lavoriamo con le aziende, quello a cui puntiamo è proprio rendere la sostenibilità parte integrante del proprio percorso. D’altronde, la traiettoria è quella: bisogna integrare la sotenibilità all’interno della propria strategia aziendale per sopravvivere non solo come “razza umana” ma anche come azienda perché il trend di mercato questo richiede. Penso che sia importante questa testimonianza.

Hai detto anche un altro punto interessante: quello del collegamento con i vostri pilastri di sostenibilità e il vostro prodotto e posizionamento. Voi siete un’azienda di outdoor e hai parlato del pilastro “greener future”: quanto la sostenibilità è collegata al posizionamento aziendale? Un’azienda di outdoor, ormai, può non parlare di sostenibilità?

 

E: Timberland nasce proprio nel settore outdoor. Il brand è nato per persone che stavano fuori nei boschi, all’esterno, in condizioni metereologiche anche molto difficili. Di conseguenza, da questo amore per il mondo esterno e per la natura è nato un senso di responsabilità che, nel tempo, ci ha portato a costruire dei prodotti che fossero sempre più sostenibili e che, rendendoci conto dello stato attuale di crisi che il nostro pianeta vive, ci ha portato a fare uno step in più.

 

Esploratore in mezzo alla natura

Prima menzionavo la nostra idea di creare prodotti che hanno un impatto positivo sull’ambiente. Questa volontà nasce proprio dal fatto che sappiamo che andare avanti a sostenere una situazione che è di per sé degradata non è in realtà abbastanza, dobbiamo fare di più: dobbiamo spingere noi stessi, come brand, al prossimo step che è quello di cambiare il modo in cui la nostra industry e il nostro business lavorano (inteso come business della moda) e cercare di fare in modo che i prodotti non siano più un problema ma diventino parte della soluzione.

Per tornare alla tua domanda: un brand outdoor, in questo momento, se è veramente legato all’outdoor non può far altro che fare in modo di preservare la natura e preservare l’ambiente in cui viviamo.

 

S: Avete dei progetti di cui puoi parlarci riguardo l’impatto positivo?

 

E: Quando noi parliamo di impatto positivo, parliamo di prodotti che sono in grado, nel loro ciclo produttivo, di sequestrare più Co2 dall’atmosfera piuttosto di quella che è prodotta durante il ciclo produttivo. Per riuscire a raggiungere questo obiettivo di net positive, che noi ci siamo dati per il 2030 (ovviamente è un percorso molto molto lungo), andremo a lavorare su due pillars principali: da una parte la circolarità, dove tutti i nostri prodotti saranno disegnati secondo il design circolare. Di conseguenza, saranno progettati per essere fatti ed essere utilizzati e riutilizzati varie volte, ma soprattutto per essere disassemblati a fine vita, in modo tale che possano diventare nuova materia prima e minimizzare l’impatto sul pianeta.

Poi, c’è un nuovo elemento su cui stiamo lavorando, che è quello dell’agricoltura rigenerativa. Come Timberland, siamo un brand che utilizza in maniera significativa materiali naturali e tutti i nostri materiali naturali arrivano da una fonte agricola.

L’agricoltura rigenerativa è un sistema che ripropone quella che è la naturalità, il modo in cui le cose succedono naturalmente nell’ambiente e riesce, attraverso vari processi e protocolli, a sequestrare più Co2 rispetto a quella che è emessa durante il ciclo di produzione.

Abbiamo, già ad oggi, dei prodotti sul mercato che hanno pelle derivante da allevamenti che sono stati portati avanti secondo i dettami dell’agricoltura rigenerativa e siamo stati il primo brand a livello mondiale a riuscire a creare una supply chain che ci potesse permettere di utilizzare questo pellame.

 

S: A proposito di pelle, che è uno dei materiali che principalmente utilizzate (pelle, gomma, ecc..), oltre all’agricoltura rigenerativa, quali sono gli altri elementi di sostenibilità su cui state lavorando per questi due materiali?

 

E: Le nostre pelli (che sono il nostro, diciamo, minimo comune denominatore) devono provenire da concerie che abbiano un audit o Silver o Gold dal Leather Working Group che è un ente certificatore che ci permette di sapere quali siano le pratiche ambientali utilizzate all’interno delle concerie. Per noi è il punto di entrata: se non ci sono queste caratteristiche, la pelle non viene utilizzata.

L’agricoltura rigenerativa è il prossimo step perché, se davvero riusciamo a spostare tutto il sourcing della pelle verso agricoltura rigenerativa, questo ci permetterà di avere un significativo impatto positivo sull’ambiente.

Stessa cosa sta succedendo con la gomma, con il rubber. Noi di base, utilizziamo diversi tipi di gomma e utilizziamo gomma naturale ma anche gomma riciclata. Lanceremo a breve il primo progetto di agricoltura rigenerativa per la gomma, per fare in modo che anche questo materiale arrivi da pratiche che permettono di avere un impatto positivo.

Quindi, il lavoro che noi stiamo facendo su tutti i materiali naturali è proprio quello di fare una transizione verso questi nuovi tipi di agricoltura che ci danno dati e informazioni su quello che è il livello di rigenerazione del terreno e sull’assorbimento del Co2.

 

S: Parlando di minimo requirement per la pelle, mi viene da pensare anche alla vostra filiera. A noi capita spesso di lavorare con aziende che devono rispettare gli standard dei propri clienti o buyer. Come vi muovete con i fornitori per fare in modo che possano rispettare i vostri standard?

 

E: Come menzionavi tu prima Serena, facciamo parte di un gruppo molto più grande che si chiama VF corporation, con cui condividiamo quella che è la funzione chiamata da noi di responsible sourcing. Questo ci permette di praticare un’azione molto più capillare sulla filiera e ci permette di avere una buona tracciabilità in tutta la filiera.

Come Timberland, da sempre abbiamo un parco fornitori che è abbastanza limitato. Questo ci permette di avere delle relazioni di lungo periodo e di andare molto nello specifico di quelli che sono i vari step di fornitura.

Prendiamo l’esempio del Leather Working Group: nel 2005 avevamo partecipato alla creazione di questo sistema ed eravamo uno dei pochi brand che si era posto questo obiettivo molto ambizioso, ovvero quello di avere il 100% del pellame che arrivasse da concerie certificate. Al tempo, questa cosa sembrava assurda perché era comunque già un approfondimento della propria supply chain che, al tempo, era abbastanza challenging. Noi siamo riusciti a farlo e adesso, con l’agricoltura rigenerativa, stiamo andando anche verso lo step successivo. Grazie all’agricoltura rigenerativa abbiamo un forte rapporto con il farmer e di conseguenza questo ci permette di avere una supply chain che è assolutamente trasparente e tracciabile.

Se prendo l’esempio delle pelli che arrivano da agricoltura rigenerativa, le pelli sono segregate dal momento in cui escono dall’agricoltore e noi seguiamo tutto il percorso che la pelle fa per poi diventare una scarpa o, comunque, un oggetto delle nostre collezioni.

Questo ci permette sicuramente di avere molta più visibilità su tutti quelli che sono i passaggi su tutte le pratiche e, di conseguenza, di poter intervenire in maniera più veloce nel caso in cui ci sia qualcosa che non va.

Pelle

S: Siete riusciti a raggiungere obiettivi molto ambiziosi. Hai dei consigli per le aziende che stanno iniziando ora il percorso nel campo della sostenibilità? Quali sono, secondo te, gli elementi fondamentali per poter raggiungere degli obiettivi concreti di sostenibilità?

 

E: Alcune volte può sembrare un po’ spaventoso, di fronte a supply chain così complicate, riuscire a capire come si possa avere tracciabilità. Il mio consiglio è quello di fare affidamento le certificazioni. Una certificazione come Leather Working Group oppure certificazioni come GOTS per l’organic cotton e così via per altri materiali, permettono di avere visibilità sulla supply chain e di avere quella rassicurazione che le cose vengano fatte in un certo modo.

Secondo me, il punto di partenza della certificazione è importantissimo, soprattutto per un’azienda medio/piccola.

In un’azienda come VF o Timberland, che presentano numeri molto alti, questo percorso è stato internalizzato il più delle volte. Noi abbiamo dei team che si occupano di tracciabilità, di audit e di lavoro all’interno della supply chain per fare in modo che i materiali e anche il modo in cui vengono gestiti siano rispondenti a tutte le policy di VF.

 

S: Sappiamo, però, che le certificazioni hanno i loro limiti: abbiamo condiviso poco tempo fa, un report di Greenpeace che sostiene che le certificazioni, da sole, non riescono a raggiungere tutti gli obiettivi sulla tutela della biodiversità. Sono sicuramente, però, un ottimo punto di partenza. Per quanto riguarda le certificazioni come strumento di comunicazione, quanto è importante per Timberland la comunicazione? La sostenibilità è anche uno dei vostri pilastri di comunicazione giusto?

 

E: La sostenibilità fa parte del nostro purpose come brand quindi, di conseguenza, la nostra narrativa è legata alla sostenibilità (lo vedete anche se passate sui nostri canali Social) .

A livello di prodotto, ciò che diventa importante è spiegare perché quel prodotto è sostenibile e spiegare cosa c’è di diverso in quel prodotto rispetto agli altri.

Nel nostro caso, i nostri prodotti hanno una scheda che racconta, sul nostro sito internet, tutti gli elementi di sostenibilità che il prodotto ha.

Cerchiamo di rendere la descrizione un po’ meno tecnica rispetto a come potrebbe essere descritta da un esperto di sostenibilità (il quale avrebbe sicuramente un linguaggio molto più tecnico).

 

S: Anche questo è un altro tema chiave: trovare il giusto equilibrio tra tecnicismo e il rendere la comunicazione accessibile. Mi hai fatto venire in mente uno studio che è stato fatto sulla comunicazione di grandi/piccoli brand sulla sostenibilità: paradossalmente, le aziende più attive sulla sostenibilità sono quelle che usano meno questa parola all’interno della comunicazione perché vanno sul concreto!

 

E: Purtroppo la sostenibilità ha il grande problema del greenwashing, che è uno dei grandi problemi nell’industria della moda.

È molto importante che ci siano messaggi chiari, programmi reali dietro il prodotto e la filiera per fare in modo che non siano solo parole ma attori di cambiamento

 

S: Vorrei tornare sul tema delle certificazioni perché secondo me è un tema molto importante per chi ci legge/ascolta. Secondo te le certificazioni fino a che punto possono arrivare e quanto, invece, deve esserci la presenza del brand in termini di verifiche, collaborazione, ecc…?

 

Secondo me le certificazioni sono un buon punto di partenza per un brand che deve cominciare a muoversi all’interno del mondo della sostenibilità e per quei brand più “piccolini” che non hanno ancora tutta la forza che può avere una multinazionale di mettere in campo, per esempio, energie e sinergie e attività per coprire quegli ambiti che rimangono scoperti dalle certificazioni.

Le certificazioni purtroppo non sono perfette e non riescono, al momento, a coprire lo spettro di tematiche che sono legate alla sostenibilità. Quindi, sicuramente oltre alla certificazione ci dev’essere un lavoro proattivo del brand per fare in modo che si valutino quelle che sono le aree scoperte e si possano individuare delle azioni per poter agire.

Come hai detto te, ci sono alcune certificazioni che ancora non coprono il tema della biodiversità che, in questo momento, è un tema che sta esplodendo nel mondo del fashion e che per anni non è stato così considerato. Molto probabilmente un brand si deve chiedere qual è il nostro impatto e come possiamo fare in modo di riempire questo gap che ancora esiste.

 

S: Questo richiede un’analisi di quello che è l’impatto dell’azienda, quindi andare a capire quali sono le criticità della propria filiera, i propri prodotti adottando un approccio tailor made sull’azienda… ogni azienda ha filiere e criticità diverse, no?

 

E: Assolutamente. A proposito di questo, noi come brand Timberland (ma anche come azienda VF) abbiamo fatto qualche anno fa un percorso molto interessante per riuscire a pubblicare i nostri science based target, ovvero dei target quantitativi che ci dicono quanto deve essere la riduzione delle nostre emissioni come azienda per stare all’interno degli accordi di Parigi.

Per fare questo lavoro, abbiamo mappato tutta la nostra filiera, compreso il fine vita dei prodotti. La cosa interessante che è emersa da questo lavoro è che circa il 60% di tutte le nostre emissioni sono legate al sourcing del raw material e alla parte manifatturiera.

Dunque, sappiamo che una delle tematiche più importanti che dobbiamo affrontare è proprio la scelta del materiale. Da qui, la scelta di spostarci sull’agricoltura rigenerativa proprio perché è l’unico modo che noi abbiamo per ridurre in maniera quantitativa e misurata le emissioni.

 

S: Una domanda sui science based target: secondo te, come si sta muovendo il settore moda a livello macro?

 

E: A livello macro, c’è un fortissimo movimento verso la sostenibilità e, nello specifico, verso l’economia circolare. L’economia circolare è stata un po’ la base word degli ultimi 3/4 anni: ormai, tutte le aziende hanno capito che questa è la direzione anche se probabilmente ognuno di noi si sta chiedendo come, in maniera concreta, dovranno essere rivisti i modelli di business per andare verso l’economia circolare.

L’altro elemento che sta cominciando ad emergere (di cui noi siamo stati precursori) è proprio quello dell’agricoltura rigenerativa. Questo sarà molto probabilmente uno dei più grandi topic dei prossimi anni perché l’industria del fashion è principalmente basata su materiali provenienti dal petrolio che col tempo si sposteranno verso materiali bio based (quindi agricoli) o materiali naturali che arrivano dall’agricoltura.

Quindi l’industria del fashion, che è stata sotto i riflettori molto più di altre industrie negli ultimi decenni (proprio per il significato che ha come industria per il consumatore), ha avuto una grossa presa di coscienza di quelli che sono gli impatti.

Io vedo moltissimo fomento, moltissime iniziative e sicuramente la volontà di fare meglio.

Dobbiamo, molto probabilmente, ancora imparare a comunicare bene col consumatore per far capire qual è il valore aggiunto di tutto questo lavoro sui prodotti. Su questo vedo ancora un margine di miglioramento perché i vari messaggi che sono usciti durante i vari anni, molto probabilmente, hanno confuso il consumatore. Non so quanto un consumatore che non è realmente educato su queste tematiche riesca a comprendere le diversità relative alla sostenibilità nel mondo del fashion.

La cosa bella è che le cose si stanno muovendo e c’è una presa di coscienza seria.

 

S: A livello di comunicazione, secondo te, quali sono gli step che andrebbero fatti? Da un lato, anche a livello legislativo, possono forse servire delle limitazioni su quando si può usare il termine “sostenibilità” ma, aldilà del tema legislativo che è molto lungo e complesso, quali sono gli step per dare trasparenza e chiarezza al consumatore?

 

E: Sicuramente cercare di aiutare il consumatore a capire nello specifico come quel prodotto è più sostenibile, che tipo di materiale utilizza e perché quel materiale è stato definito sostenibile. Tante volte ci sono un po’ di claim lasciati “per aria”.

Quindi bisognerebbe aiutare il consumatore nel prendere coscienza del perché certi materiali, se trattati in un certo modo, sono più sostenibili di altri.

Ovviamente, questa comunicazione è abbastanza complicata perché l’attenzione di ognuno di noi è sempre più bassa. In più la sostenibilità, a volte, può essere un po’ un po’ overwhelming, cioè ci può far sentire piccoli e senza potere.

In realtà, quello che noi abbiamo visto è che quando racconti una storia e quando riesci a raccontare qualcosa che emotivamente tocca il consumatore (ovviamente dicendo sempre cose puntuali e fattuali) allora, a quel punto, il consumatore si trova immerso in questa narrativa e comprende molto bene perché un determinato prodotto è meglio di un altro.

 

Conclusioni

 

Possiamo affermare che per Timberland la strategia di sostenibilità ricopra un ruolo predominante all’interno della strategia aziendale.

Grazie alle dimensioni del business, infatti, il brand non mira semplicemente alla riduzione delle emissioni di Co2, bensì si è prefissata un obiettivo di “net positive”: anziché provocare danni all’ambiente, vuole essere in grado di risanarlo.

Come ha affermato Elisabetta, i progressi si fanno un po’ per volta: non è necessario avere le dimensioni aziendali di un brand come Timberland per fare qualcosa di concreto.

Le certificazioni possono rappresentare un punto di partenza; poi, però, ogni realtà aziendale fa a sé, e può contribuire alla sostenibilità in modo diverso.

 

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Francesca Poratelli
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Dopo un’esperienza lavorativa in Yamamay ha deciso di specializzarsi nel campo della sostenibilità. Si è occupata di assessment di sostenibilità ambientale e sociale per aziende che spaziano dall’abbigliamento outdoor al merchandising tessile.

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