Microplastiche e settore moda: possibili soluzioni
Che cosa sono le microplastiche?
Le microplastiche sono piccole particelle di plastica generalmente più piccole di un millimetro.
A causa dell’enorme produzione industriale di plastica, è stato stimato che all’incirca 8 milioni di tonnellate di plastica vengano riversate nei nostri oceani ogni anno.
Queste particelle vengono ingerite dalla fauna marina, arrivando quindi a modificare tutta la catena alimentare.
Recenti studi di Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) hanno dimostrato come circa il 15-20% delle specie marine che finiscono sulle nostre tavole contengano microplastiche.
Allo stesso modo, è stata riscontrata una contaminazione dell’acqua potabile in maniera più o meno uniforme in ogni parte del globo.
Le microplastiche si dividono in primarie e secondarie
Le microplastiche primarie sono rilasciate nell’ambiente già in piccole dimensioni e rappresentano tra il 15% e il 31% delle microplastiche presenti nell’oceano; sono rilasciate principalmente da:
- Lavaggio capi sintetici (35%)
- Abrasione pneumatici durante la guida (28%)
- Prodotti per la cura del corpo come scrub e dentifrici (2%)
I dati sono variabili a seconda dello studio; in qualsiasi caso, lavaggio di capi sintetici e abrasione degli pneumatici restano tra le fonti principali.
Le microplastiche secondarie invece derivano dalla degradazione di pezzi di plastica più grandi (come bottiglie e sacchetti) che vengono dispersi nell’ambiente. Queste rappresentano tra il 61% e l’81% delle microplastiche presenti nell’oceano.
Le microplastiche e la moda
Una delle principali fonti di microplastiche primarie è il lavaggio in lavatrice dei capi sintetici. Essi infatti sono composti da piccoli filamenti di plastica che si disperdono durante i lavaggi.
Più laviamo, più microplastiche immettiamo in mare e nell’ambiente. Non solo: possiamo perdere filamenti anche senza lavare i capi, ad esempio camminando.
I dati e i numeri sul rilascio di microplastiche presentano ancora incertezze ed è necessaria una standardizzazione dei metodi.
Bisogna inoltre fare due considerazioni sui tessuti non sintetici.
Come spiega Eunomia, la viscosa, fibra prodotta con materiali naturali trattati chimicamente, è in una “zona grigia”. Poiché sono stati trovati resti di viscosa nell’ambiente, sono necessari studi per confermare la biodegradabilità.
Allo stesso modo, un tessuto 100% naturale può essere originato da materiale biodegradabile, ma le lavorazioni che subisce (tintura, finissaggio etc) possono ridurre o eliminare la sua biodegradabilità. Il tessuto naturale o la viscosa non danno quindi garanzia di biodegradabilità. Esistono inoltre bioplastiche che non sono biodegradabili, come il PLA derivato dal mais.
Un settore che contribuisce in larga misura al rilascio di microplastiche nell’ambiente è il settore della moda.
Il lavaggio in lavatrice dei capi sintetici, infatti, è una delle principali fonti di rilascio di microplastiche. È stato stimato che il 35% delle microplastiche primarie provengano da rilasci durante i lavaggi dei capi in fibre sintetiche.
Grazie alle loro dimensioni ridotte, riescono a passare gli impianti di trattamento e finire direttamente in mare.
I vestiti vengono principalmente prodotti in fibre sintetiche, le quali rappresentano circa il 60% di tutte le fibre consumate ogni anno dall’industria dell’abbigliamento (quasi 70 milioni di tonnellate).
Molti di questi abiti vengono utilizzati solo una volta e finiscono nelle discariche, in quanto le pratiche di riciclaggio sono poco diffuse.
Il ruolo delle regolamentazioni
Il grande problema delle istituzioni è che devono far fronte a un mercato piuttosto ampio ed essenziale per la nostra società; ci sono casi in cui è difficile trovare un surrogato della plastica che abbia tutte le sue proprietà.
Per la politica è complesso trovare un equilibrio tra convenienza di produzione per l’azienda e virtuosità della conversione a una soluzione più sostenibile; questo purtroppo rallenta e complica le azioni istituzionali.
L’Europa comunque sta lavorando per affrontare il problema: un esempio è quello della direttiva europea per l’eliminazione di prodotti di plastica usa e getta particolarmente inquinanti come i cotton fioc dal 2020.
Gli interventi normativi sono un ottimo punto di partenza e sono necessari. Purtroppo però il problema della plastica è a uno stadio talmente avanzato da rendere il percorso istituzionale troppo lento. Non possiamo quindi affidarci solo alle istituzioni: serve maggiore consapevolezza del cittadino privato ma anche del cittadino investitore e lavoratore. Il problema è reale e tocca tutti noi: ogni scelta della nostra vita ha un impatto, dagli acquisti al comportamento sul luogo di lavoro.
L’impatto ambientale dei materiali alternativi
Abbiamo chiesto a Giulio Magni di One Ocean Foundation la sua opinione sui materiali alternativi alla plastica. Se pensiamo ad esempio al packaging, le alternative più comuni sono le bioplastiche e il vetro, che però sono grandi energivori (cioè richiedono più energia della plastica per essere prodotti); se pensiamo ai tessuti alternativi a quelli sintetici invece sappiamo ad esempio che il cotone richiede enormi quantità di acqua e pesticidi.
La plastica però ha un grande problema che rischia di vanificare i vantaggi: non viene correttamente riciclata. Il 40% della plastica infatti non viene riciclata ma finisce nei termovalorizzatori o in discarica. Se a questo dato aggiungiamo che il 28% dei rifiuti non viene smaltito correttamente e finisce in discariche abusive o disperso in natura, inquinando fiumi e mari, ci rendiamo conto di quanto le qualità della plastica (poco consumo di energia durante la produzione e ottima durabilità) vengano perse a causa della difficoltà a immettere nuovamente i rifiuti nel circuito di produzione. Purtroppo è difficile dare una risposta assoluta, ma partendo dalla constatazione dell’efficacia solo parziale del riciclo e della pericolosità della plastica se dispersa nell’ambiente risulta fondamentale promuovere materiali alternativi.
Analizziamo adesso le possibili soluzioni che possono essere adottate al fine di ridurre il rilascio di microplastiche nell’ambiente.
Dobbiamo informarci non solo sul problema che dobbiamo affrontare ma anche sui rischi delle potenziali soluzioni, in modo da adottare la più efficace.
Un esempio calzante di soluzione non efficace è quello delle cannucce “sostenibili” di McDonald’s: il colosso del fast food ha infatti eliminato le cannucce di plastica ma le ha sostituite con cannucce di carta non riciclabili a causa delle dimensioni ridotte. I clienti fortunatamente si sono resi conto che le cannucce venivano buttate nell’indifferenziata e ora l’azienda sta cercando un’alternativa davvero sostenibile.
Cosa possono fare i brand per diventare più sostenibili?
Ci sono dei parametri che impattano il rilascio di microplastiche e che è bene considerare durante la fase di design, quali ad esempio:
- Il tipo di fibra: quella continua ritorta ha un rilascio inferiore di quella continua volumizzata, e ancora meno di quella discontinua (Carney Almroth, Quantifying shedding of synthetic fibers from textiles; a source of microplastics released into the environment, 2017).
- Il numero e il tipo di cuciture: poiché un tessuto strappato produce più microplastiche di uno integro, minimizzare il numero di cuciture e utilizzare metodi come la termosaldatura al posto della cucitura tradizionale riducono il rischio di rilascio.
Altre azioni importanti sono:
- Verificare con i fornitori il sistema di gestione dei pellet usati per creare il tessuto, che hanno un impatto probabilmente ancora maggiore delle microplastiche rilasciate durante i lavaggi.
- Dare informazioni ai consumatori su come minimizzare il rilascio durante il lavaggio.
- I brand possono inoltre testare i prodotti al Centro Tessile Cotoniero.
Cosa possono fare i consumatori?
- Scegliere bene i capi sintetici. Preferiamo capi riciclati per non produrre nuova plastica e se possibile chiediamo al brand se la fibra è continua o a fiocco e se le cuciture sono state termosaldate.
- Lavare i capi sintetici nella Guppy Bag, che trattiene una parte delle microplastiche. La Guppy Bag è di nylon, eppure rilascia molte meno microplastiche di un capo medio, a dimostrazione del fatto che il tipo di lavorazione incide molto sul rilascio.
- Fare attenzione ai capi sintetici strappati, che rilasciano più microplastiche.
- Lavare i capi solo se strettamente necessario, usare poco detergente e possibilmente bio, scegliere un ciclo a bassa temperatura (Napper, Release of synthetic microplastic plastic fibres from domestic washing machines: Effects of fabric type and washing conditions, 2016. I risultati hanno comunque mostrato una certa variabilità).
Riassumendo, gli sforzi principali devono partire dal produttore, che deve essere spinto a produrre meno, ma con tessuti di qualità e relative certificazioni. Allo stesso tempo, i consumatori devono esigere prodotti di qualità, comprare meno e meglio, adottare le pratiche elencate precedentemente al fine di ridurre al minimo il rilascio di microplastiche nell’ambiente.
Cikis aiuta le aziende di moda a rispondere alla richieste del mercato, affiancandole nell’implementazione di una corretta strategia di sostenibilità. Nella nostra analisi di sostenibilità i capi vengono analizzati anche relativamente al rischio di rilascio microplastiche.
Fonti:
www.isprambiente.gov.it/files2018/pubblicazioni/quaderni/Quaderno_2_2018_lab.pdf
www.eunomia.co.uk/case_study/measuring-impacts-of-microplastics/
www.wwf.it/plastica_nel_mediterraneo.cfm
www.eu.patagonia.com/it/it/product/guppyfriend-washing-bag/E0170.html
www.inquirylearningcenter.org/wp-content/uploads/2015/08/Napper2016.pdf
Ricevi in automatico articoli come questo e gli ultimi aggiornamenti sulla moda sostenibile!